Poco lontano dalla casa della mia bisnonna c’era il Dopo Lavoro Ferroviario: sei campi da bocce all’aperto - 28 metri di lunghezza e 5 metri di larghezza - che mi ricordavano le corsie di un'autostrada. Attorno si radunavano gli appassionati. Mio padre, ogni tanto, ci andava per salutare alcuni amici che giocavano a bocce. Io lo seguivo, felice di poter assistere alle gare e curioso di verificare quanto avrei dovuto allenarmi per assimilare le tecniche di quello sport così semplice e affascinante. Ero attratto dal ritmo delle giocate che si susseguivano senza soluzione di continuità, dai movimenti, a volte strani e incomprensibili, dei boccisti, dalla loro concentrazione e dalla ritualità dei gesti. Allora avevo 13 anni. D’estate, nel tardo pomeriggio, prima dell’ora di cena, si svolgevano diverse partite: al termine, accanto alle corsie di gioco, si formava un crocchio di appassionati che commentavano i risultati delle gare più importanti. A catalizzare l’attenzione della platea, con commenti tecnici precisi, puntuali e circostanziati, era il "senatore", un ex campione già avanti con gli anni: non gareggiava più, ma ogni giorno deliziava gli appassionati giocando un paio di partite nel corso delle quali dimostrava la sua enorme classe. Affascinato dalla competenza del vecchio guru, mi sedevo spesso vicino a lui per comprendere al meglio e dinamiche riguardanti il mondo delle bocce e per avere notizie aggiornate sui risultati ottenuti dai giocatori più bravi. L’anziano campione mi aveva preso in simpatia. Un giorno, addirittura, mi aveva invitato a giocare una partita con lui. Non riuscivo a crederci.
Avevo bofonchiato, con un certo imbarazzo: «Non ho le bocce.»
«Non preoccuparti, te le regalo io», era stata la replica del "senatore".
Da quel momento, mi ero sentito parte di una nuova famiglia. Le visite alla bisnonna costituivano il pretesto per recarmi alla vicina bocciofila, dove potevo migliorare la tecnica grazie ai suggerimenti del "senatore" e di altri esperti giocatori.
«Ragazzino, hai della stoffa» - mi dicevano tutti quanti, piuttosto compiaciuti - «ma ne dovrai mangiare, di pagnottelle, prima di diventare un giocatore come si deve.»
Qualche anno dopo, a Piacenza, avrei ricevuto l’abbraccio commosso e felice proprio del vecchio "senatore" che, con orgoglio, aveva assistito alla cerimonia di premiazione dopo un'emozionante finale dei Campionati Italiani: il suo pupillo, per il secondo anno consecutivo, indossava la maglia tricolore nella categoria Allievi.
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Alle frequenti vittorie si alternavano sconfitte talvolta cocenti; ma avevo imparato ad accettarle di buon grado. Il "senatore", che spesso mi seguiva nelle trasferte sportive, era prodigo di suggerimenti, pronto a criticarmi con asprezza quando commettevo degli errori, soprattutto di ordine tattico. Le sfuriate del vecchio campione non erano mai fini a se stesse. Durante il viaggio di ritorno, le partite erano vivisezionate; gli accosti più o meno riusciti, le bocciate e i tiri di raffa, le decisioni prese con lo scopo di variare l’impostazione di gioco: tutto era oggetto di un’analisi accurata. Quelli tenuti dal "senatore" erano veri e propri corsi universitari di boccismo, facoltà nella quale mi stavo laureando senza troppa fatica. Il rapporto tra noi due s’intensificava ogni giorno di più; avevamo imparato a comunicare in modo simbiotico, attraverso sguardi e gesti che ci scambiavamo nel corso delle quotidiane sedute di allenamento e durante le partite ufficiali nei tornei. Per la verità, avevo la sensazione di vivere quasi un’esistenza parallela. I rigidi confini dello sport agonistico erano paragonabili alla Grande Muraglia cinese: un ostacolo insormontabile che non mi consentiva di riposizionarmi nella realtà quotidiana. Troppo spesso mi abbandonavo ai sogni di un’effimera gloria sportiva a cui cercavo di attingere per dare un senso alla vita. Si trattava di un meccanismo pericoloso: ne ero conscio. Tuttavia, quel rapporto confidenziale con il "senatore", fatto di confronti serrati e di vivaci discussioni, mi aveva sedotto attraverso una mescolanza d’intrighi da cui mi sentivo avvolto quasi fosse una spirale.
«Senatore, voglio smettere di giocare», gli avevo detto un giorno, al termine del solito allenamento. «Non mi diverto più. Inoltre, sto per iscrivermi all’Università: lo studio mi obbligherà a impegnarmi molto più di quanto non abbia dovuto fare sino a oggi. Comunque… grazie di tutto.»
Il vecchio guru, dopo un imbarazzante silenzio, mi aveva squadrato con aria inquisitoria, poi mi aveva sussurrato con tono bonario: «Fa’ pure quello che devi, però non dimenticarti mai di noi.»
Lo sguardo burbero del "senatore" si era addolcito, nell’occasione, diventando per qualche attimo persino malinconico. Solo in seguito, avrei capito che gli occhi di un vero campione sono sempre in grado di presagire l’ultima, irrimediabile sconfitta...